Una piazza deserta, case inclinate che sembrano piegarsi sotto il peso di uno sguardo: è questa la prima impressione che lascia il film, non una sequenza di sangue ma un paesaggio costruito per disorientare. La macchina da presa non racconta più la realtà come riflesso; la plasma. In un’epoca in cui le pellicole cercavano la verosimiglianza, questa opera ha scelto di trasformare ogni elemento scenico in un indizio della mente che osserva. Lo raccontano gli studi sul cinema tedesco: non è un caso se, dopo la Prima guerra mondiale, registi e scenografi in Germania hanno privilegiato una grammatica visiva capace di rendere visibile l’interiorità.
Il film mette in primo piano l’architettura della paura: set angolati, ombre nette e oggetti che sembrano crescere fuori misura per suggerire instabilità. La luce non illumina, ma segmenta i volti e definisce vuoti; le finestre oblique attribuiscono una direzione sbagliata allo sguardo. Si vede chiaramente come il palco scenico diventi specchio di una memoria spezzata: ogni portone deformato, ogni strada che si piega su se stessa è pensata per produrre smarrimento, non per spiegare un avvenimento. Un dettaglio che molti sottovalutano è la cura delle superfici pittoriche: i fondali non sono semplici scenografie, ma elementi attivi che determinano il ritmo visivo e la percezione dello spettatore.
Questa strategia visiva ha inaugurato il movimento noto come espressionismo nel cinema tedesco, una scelta estetica che non nasconde la follia, ma la mette in scena come fattore strutturante della narrazione. Chi studia il periodo lo nota nelle retrospettive e nei corsi universitari: l’opera non si limita a spaventare, spiega come la forma possa incidere sul contenuto e come la rappresentazione possa diventare strumento di analisi sociale.
Performance, politica e il punto di vista che ristruttura la storia
Il cast costruisce la tensione con il corpo più che con la parola. Il personaggio chiave è un essere che sembra guidato da un’energia esterna: il movimento, lo sguardo, la gestualità comunicano più delle didascalie. Qui il corpo diventa testo: le pose spezzate e gli occhi fissi funzionano come un linguaggio mimico che prende il posto del parlato nel cinema muto. In questo modo si vede come la recitazione influenzi la lettura politica del film; molti critici hanno letto il dottore come figura di autorità e manipolazione di masse, una lettura che collega l’opera al clima della memoria collettiva in Germania dopo il conflitto.
Il racconto è strutturato per far dubitare della fiducia nello sguardo narrativo: il punto di vista vacilla e la narrazione si ricompone intorno a un colpo di scena che rovescia il senso di ciò che si è visto. Ecco perché il film viene spesso citato come antesignano di opere che giocano con la prospettiva soggettiva. Un aspetto che sfugge a chi vive in città è il modo in cui questa tecnica ha influenzato non solo l’horror, ma anche il modo di raccontare la psiche in generi diversi.
Il lavoro su sguardi e posture delinea figure ambigue: il sonnambulo non è solo strumento da palco, ma simbolo di perdita di controllo; chi lo guida assume il ruolo di burattinaio, e lo spettatore è chiamato a interrogarsi sul rapporto tra comando e obbedienza. Nelle aule di cinema e nelle retrospettive in Europa, il film continua a essere punto di riferimento per registi e studiosi: un progetto che ha cambiato il modo di vedere le immagini e che ancora alimenta riflessioni sul rapporto tra forma, potere e paura.